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2011_180 - Padiglione Catalano

La riflessione che proponiamo qui è la seguente: è possibile praticare la sovversione del dispositivo Biennale pur ospitando un padiglione ufficiale?

DENTRO IL DISPOSITIVO BIENNALE PER SOVVERTIRE L’ECONOMIA DEL CONTEMPORANEO.

Una riflessione sul rapporto tra S.a.L.E., Biennale e l’Institut Ramon Llull

Quest’anno il S.a.L.E. ospiterà “180”, una personale di Mabel Palacin, partecipazione ufficiale della Catalogna e delle Isole Baleari alla 54 Biennale di arti visive di Venezia. Parallelamente alla mostra si svilupperà un programma culturale diviso cinque appuntamenti, curato dal S.a.L.E. e intitolato: “Oltre la crisi. Per la pratica del Comune”.

Il partner dell’iniziativa è L’Institut Ramon Llull di Barcellona.

La riflessione che proponiamo qui è la seguente: è possibile praticare la sovversione del dispositivo Biennale pur ospitando un padiglione ufficiale?

Il paradosso della Biennale di Venezia non sfugge alla dinamica perversa dell’economia creativa. Da una parte la mostra d’arti visive è un’innegabile occasione per confrontarsi con i trend globali dell’arte contemporanea, dall’altra essa funziona come dispositivo di rinforzo delle rendite immobiliari, accademiche e spesso anche culturali.

Non è forse paradossale che l’arte (sovente in dialogo con i rappresentanti del pensiero più radicale) faccia capolino dal piano nobile di decine e decine di palazzi veneziani? Attenzione, non stiamo dando un giudizio morale, questo osservazione deriva dall’analisi materiale di come l’economia della Biennale finisca per disconoscere la dimensione comune delle pratiche artistiche a favore di vecchi e nuovi rentiers della laguna.

Parlare di dimensione comune dell’arte significa riconoscere l’attualità della creazione artistica, dove l’opera diventa, in maniera sempre più chiara, il frutto di un corto circuito tra singolarità e dimensione cooperante. Dove la confusione tra rete e singoli nodi è la condizione necessaria alla creazione di nuovo essere.

Basta osservare da una prospettiva di parte, cercare oltre la superficie per rendersi conto della dismisura tra potenza comune della creazione cooperante e mancato riconoscimento del merito di questa dimensione.

Il plusvalore prodotto dagli operatori del contemporaneo (artisti, musicisti, designers, architetti, ricercatori, compositori, hackers, programmatori, attori, performer, danzatori, registi, autori, curatori, organizzatori, attivisti, media-attivisti, ecc.) che lavorano in rete (sia on che off line) è quasi totalmente catturato ed estorto, non solo attraverso il tradizionale mercato artistico, ma anche attraverso il modello della creative city nelle sue varie declinazioni.

Il contemporaneo è comune per eccellenza, non solo perché dentro questa fase della produzione esso è relazionale e cooperante più che mai, ma anche per quel carattere di intempestività che lo definisce. Se non c’è scarto, se non c’è eccedenza, se c’è una rispondenza totale alle richieste del proprio tempo (che è il dovere delle istituzioni ufficiali) non c’è contemporaneo, c’è magari un canone, nella migliore delle ipotesi, se no solo volgarità disarmante.

Tornando al S.a.L.E., costruire un programma culturale in partnership con l’Institut Ramon Llull, significa iniziare sovvertire il dispositivo Biennale. Significa poter programmare una serie di eventi seminariali di caratura internazionale dove discutere di beni comuni, crisi, conflitti metropolitani, Cina, insurrezioni arabe e ruolo dell’arte contemporanea. Significa, inoltre, recuperare quote di reddito per giovani precari e produrre un modello che sappia fare esodo dai caratteri negativi della precarietà del lavoro culturale.

Si tratta certamente di una scommessa le cui valutazioni andranno fatte tra qualche mese. Intanto noi proviamo a suggerire un modello in cui il la Biennale sia al servizio del comune e non viceversa.

INSIDE THE BIENNALE DEVICE TO SUBVERT THE “ECONOMY OF THE CONTEMPORARY”

A consideration on the relationship between S.a.L.E., Biennale and Institut Ramon Llull

This year, S.a.L.E. Docks will host “180°”, a personal exhibition by Mabel Palacìn, as official participant for Cataluña and Baleares Islands at the 54th Biennale di Arti Visivie di Venezia. In parallel with the exhibition, a cultural program formed by five appointments will be developed, curated by S.a.L.E. and entitled “Beyond the crisis. For the Practice of the Common”.

The partner for this project is the Institut Ramon Llull of Barcelona.

The consideration we purpose is the following one: is it possible to practice a certain kind of subversion of the Biennale device even hosting an official pavilion?

The Biennale paradox doesn’t escape from the wicked dynamic of the creative economy. On one side the Exhibition of visual arts is, undeniably, an occasion to deal with the global trends of contemporary art, on the other it works as a device that enforces real estate rent together with academic and cultural entities.

Isn’t it paradoxical that Art (often dealing with the most radical thinkers) peeps out from loads of main floors of antique Venetian palaces? But pay attention, we’re not trying to give a moral judgement; this is an observation that comes from the materialistic analysis of how the economy of the Biennale ends in ignoring the common dimension of the artistic practices, favouring instead new and old rentiers of the lagoon.

To speak of common dimension of art means the recognition of the topicality of the artistic creation, when the work of art becomes, always more clearly, the product of a short-circuit between singularity and a cooperating dimension…Where the confusion between net and single knots is the necessary condition for the creation of a new product. Observing from a one-sided prospective, looking behind the surface, is enough to recognise how deep is the gap between the common power of the cooperating creation and the missing recognition of its worth.

The surplus value produced by the operators of the contemporary (artists, musicians, designers, architects, researchers, composers, hackers, programmers, actors, performers, dancers, directors, authors, curators, organizers, activists, media-activists, etc) who work also through the web (both on or offline) is almost completely caught and extorted not only through the traditional artistic market, but also by the means of the creative city model in all its aspects.

The contemporary is common par excellence, not only because inside this phase of the production it is relational and cooperating more than ever, but also because of its distinctive untimeliness. If there’s no difference, no excess, if there is a complete correspondence to the requests of the very contemporary time (which is a duty of official institutions) there is no contemporary, there’s at best a canon, or otherwise only disarming vulgarity.

Going back to S.a.L.E., scheduling a cultural program with the partnership of Institut Ramon Llull means subverting (even if at a very limited extent) the Biennale device. It gives us the chance to plan a series of conferences, seminars and workshops of international importance to debate about common goods, crisis, metropolitan conflicts, China, Arab insurrections and the role of contemporary art. It means, moreover, collecting incomes for young temporary employees and producing a model that could escape the negative features of the cultural employment.

This is, for sure, a challenge whose results will be analysed in a few months. In the meantime, we’ll try to suggest a model in which Biennale would work for the common, and not vice versa.

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