“È fondamentale distinguere l'uomo dall'artista, la storia dell'arte è piena di artisti che hanno commesso crimini, ma non per questo abbiamo smesso di ammirare le opere che hanno prodotto”. Parole di Alberto Barbera, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, a proposito dell’invito a Luc Besson, Woody Allen e Roman Polański, tutti interessati da accuse di stupro e molestie sessuali (condannato il primo; assolto da un’accusa il secondo, ma deve ancora scagionarsi da altre otto; mai veramente chiarita la verità sul terzo).
Ma a forza di distinguere tra vita e arte, che accade all’arte? Accade che può diventare il regno dei “maestri”. Il maestro, maschio ed anziano, è una categoria nella cui ombra, troppo spesso, si consumano rapporti asimmetrici. Parafrasando Achille Mbembe, il maestro è uno dei “corpi notturni” dell’arte in cui l’eroismo della creazione individuale fornisce troppo spesso l’alibi per una vita all’insegna della predazione, in certi casi seriale.
Il problema non è quello di riconoscere il valore artistico di Polański, quanto piuttosto di farla finita con i maestri (al festival, e non solo). Venezia non sta andando in questa direzione e anche se la giustizia di genere non è una questione aritmetica, i numeri di questa Mostra sono abbastanza rivelatori: 59 registi uomini contro 25 donne.
Ciliegina sulla torta, la presenza di Luca Barbareschi (che maestro non è): quello della “mafia dei froci”, del “sono stato omosessuale” (tipo fosse una malattia), quello delle attrici che denunciano molestie “per farsi pubblicità” (un classico della cultura dello stupro).
Insomma, siamo di fronte non a uno, ma perlomeno a tre indizi che dovrebbero far riflettere Barbera, la Biennale e tutt* noi.
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